Anchorage, Alaska (USA), 15 agosto 2025.
In molte parti dell’emisfero boreale – e non solo – si era impegnati a godersi il cuore di questa torrida estate, mentre sullo Stretto di Bering, precisamente ad Anchorage nella un tempo russa Alaska, andava in scena un summit tanto atteso quanto inedito, seppur già avvenuto in passato tra i due protagonisti, “nuovo” in relazione agli ultimi 3 anni e mezzo di conflitto in Ucraina, durante i quali la diplomazia aveva fatto gran fatica a farsi largo.
Vale a dire l’incontro tra il presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin.
Il vertice era stato per molti mesi il punto di arrivo ed obiettivo della seconda amministrazione Trump sin dal suo insediamento avvenuto il 20 gennaio 2025 e per alcuni analisti da ancora prima, cioè dalla campagna elettorale del Tycoon newyorkese. Era dal 16 giugno 2021 a Ginevra, Svizzera che USA e Russia non si incontravano direttamente in un bilaterale (al tempo l’inquilino della Casa Bianca era Joe Biden e si era in piena pandemia da Covid19), 2 mesi prima del rovinoso ritiro americano dell’agosto successivo dall’Afghanistan. Inutile nascondere che in questi ultimi mesi gli indizi e le pressioni che indirizzavano ad un possibile incontro tra i due leader si sprecavano, conducendo infine alla realizzazione di quest’ultimo, il quale può tranquillamente essere definito l’evento geopolitico più importante del 2025, anche se ovviamente non decisivo, se non altro per il valore simbolico di vedere seduta una di fronte all’altra due superpotenze (nucleari) mondiali.
Il tema in agenda era ed è noto a tutti: la risoluzione del conflitto Russia-Ucraina.
Dal 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione dell’esercito di Putin del Paese guidato da Volodymyr Zelensky, Washington e Mosca non si erano più parlati, venendo quasi a contatto in questi ultimi 42 mesi (gli USA forniscono armi a Kyiv, senza schierare proprie truppe) nel primo potenziale conflitto diretto tra i due “sidenti” del vertice di Yalta del 1945, che pose fine alla Seconda Guerra Mondiale ed inaugurato la Guerra Fredda con le famose sfere di inluenza. In questi 3 anni e mezzo di guerra sono stati fatti diversi tentativi (a parole) da una parte e dall’altra di far sedere allo stesso tavolo Russia ed Occidente (Stati Uniti con Ucraina ed Unione Europea), ma sempre con lo stesso risultato: un vicolo cieco. Un primo risultato l’amministrazione Trump l’aveva già ottenuto nei mesi scorsi organizzando dei vertici con la Russia e l’Ucraina separatamente in Arabia Saudita, precisamente nel mese di febbraio. Primi colloqui che avevano condotto le parti in conflitto ad incontrarsi a maggio ad Istanbul (Turchia) per discutere di scambio di prigionieri, ma senza affrontare un cessate il fuoco, una tregua o questioni territoriali.
Senza dubbio, però, l’incontro turco ha rappresentato un rompere il ghiaccio nelle relazioni tra Mosca e Kyiv poiché le due delegazioni non si incontravano dall’aprile del 2022. A tutti in realtà in questi mesi appariva evidente che qualcosa si sarebbe davvero sbloccato solo allorquando i presidenti di Stati Uniti e Russia avessero deciso di fare il passo e di incontrarsi direttamente a faccia a faccia. E questo è accaduto. Come detto, il meeting non è stato per nulla risolutivo del conflitto ed era ovviamente nelle cose. L’incontro è stato importante a livello simbolico in quanto permette al presidente Trump di iniziare ad ammorbidire (o perlomeno a tentare di farlo) il suo omologo russo per condurlo ad un bilaterale – o trilaterale – con il presidente Zelensky.
E sarà lì che si giocherà la vera partita.
Dopo l’euforia delle prime ore – tipica di Trump – nelle quali sembrava fosse assodata la disponibilità di Putin ad incontrarsi con l’omologo ucraino, una volta rientrato in patria l’inquilino del Cremlino aveva provveduto a raffreddare gli entusiasmi sostenendo di non avere in agenda un vertice con Zelensky. Dal lato occidentale il capo della Casa Bianca aveva convocato il 18 agosto a Washington il presidente ucraino, accompagnato questa volta da alcuni leader europei (Starmer, Macron, Merz, Meloni, il presidente finlandese Stubb e il segretario generale della NATO Rutte), per discutere i dettagli dell’incontro in Alaska e cercare di iniziare a pensare a delle robuste garanzie di sicurezza per l’Ucraina una volta terminata la guerra. Anche da questo lato, dopo la disponibilità delle prime ore, l’inquilino di Palazzo Mariinskij è tornato su posizioni più rigide (e condivisibili) rispetto alle pretese unilaterali di Mosca. Ci troviamo di fronte ad un momento storico decisivo del mondo nel quale molto probabilmente potremmo assistere alla ridefinizione di alcuni confini nazionali per come li conosciamo oggi, con la definitiva messa in discussione del diritto internazionale ex post WWII (World War 2) ed il rischio concreto di un effetto domino a livello globale.
La prima domanda da farsi è: da dove si comincia in questa trattativa?
Da un lato abbiamo l’Ucraina che (giustamente) rivendica la sua integrità territoriale – come da diritto internazionale del 1945 –, richiede il ritiro dal proprio territorio di tutte le truppe di invasione, oltreché la adesione alla NATO e all’Unione Europea. Dall’altro lato abbiamo il punto di vista della Russia (lo stato invasore), la quale richiede la “risoluzione delle cause profonde del conflitto” – come più volte proferito dal Ministro degli Esteri Lavrov -, vale a dire la neutralità e la smilitarizzazione dell’Ucraina, la non-adesione alla NATO, il riconoscimento come russe delle cinque regioni di Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Come si vede posizioni rigide ed inconciliabili da entrambe le parti.
In che cosa consiste la missione di Trump in questo scenario?
Semplicemente trovare un compromesso. Compromesso è un termine amaro per entrambi i contendenti (soprattutto per gli ucraini) perché implica rinuncia, abbandono. Per Zelensky significherebbe rinuncia, perdita – per quanto temporanea – di parti del proprio territorio, cosa intollerabile per i propri cittadini e per la Costituzione ucraina. Per Putin varrebbe come un abbandono del suo progetto imperialista, caduta della narrazione che aveva condotto in questi anni a livello interno per giustificare agli occhi della popolazione russa la sua guerra di invasione. L’obiettivo del presidente USA quindi è quello, per cominciare, di far sedere allo stesso tavolo Putin e Zelensky. Più ritroso il primo, a cui conviene prendere tempo, più disponibile il secondo, anche su ovvia pressione dello stesso Trump. Una trattativa complicata come questa era inevitabile che partisse con richieste alte e completamente agli antipodi. Il difficile è chiaramente smussare gli angoli delle richieste di entrambe le parti per addivenire ad un accordo che sia “digeribile” per tutti (anche per gli europei) nel lungo periodo. Si è spesso sentito dire in questi ultimi anni che occorre una “pace giusta e duratura”.
Lo scrivente preferirebbe concentrarsi sul secondo aggettivo, in quanto (purtroppo) la “pace giusta” – se facciamo eccezione all’esito del secondo conflitto mondiale – pare appartenere al campo delle utopie. Durante la storia dell’umanità quante volte si è davvero avuta una pace giusta? La “pace” è sempre scaturita da quella grande, insensata ed “ingiusta” tragedia umana che è la guerra, ma sarebbe meglio quindi chiamare le cose con il loro nome: compromesso. Non può nascere qualcosa di giusto, da qualcosa di ingiusto. Ma in certi contesti un compromesso può essere una soluzione temporanea, in attesa che la vera giustizia faccia il suo lento corso nei decenni della storia. Svestendoci da riflessioni filosofiche, torniamo con i piedi per terra. A meno di sorprese sul campo di battaglia, gli USA allo stato attuale vogliono ottenere da Russia ed Ucraina un accordo.
Per avere un accordo digeribile a tutti, occorre che la bilancia sia a metà per entrambi i contendenti senza pericolose oscillazioni che rischierebbero di vanificare tutto.
Da molte parti si fa strada il cosiddetto scenario “coreano”, che non farebbe altro che ripercorrere l’armistizio raggiunto tra Corea del Nord e Corea del Sud nel 1953, congelando l’attuale linea del fronte. A livello ipotetico con tale congelamento la Russia, dal suo lato, otterrebbe i territori che attualmente occupa (Crimea, il 99% dell’oblast del Luhansk e parzialmente i rimanenti oblast, del Donetsk, Zaporizhizhia e Kherson) con un riconoscimento de facto (non de iure) da parte dell’Occidente, mentre l’Ucraina potrebbe mettere definitivamente in sicurezza il resto del suo territorio attraverso delle garanzie di sicurezza solide fornite dai Paesi occidentali attraverso l’adesione alla NATO (poco probabile) o all’attivazione di un “simil-articolo 5 NATO” in caso di nuova aggressione russa – come proposto qualche mese fa dalla premier italiana Meloni – od allo schieramento di truppe europee, in primis Francia, Regno Unito e Germania. Il problema è che nella realtà dei fatti l’incontro tra Putin e Zelensky sembra ancora molto lontano dal concretizzarsi. Dopo le buone intenzioni e le frasi di circostanza snocciolate dopo l’incontro in Alaska, i contendenti hanno ricominciato come al solito a rinfacciarsi vicendevolmente il tentativo di boicottare il negoziato (Putin ha ribadito la illegittimità di Zelensky, in quanto scaduto nel proprio mandato e non rinnovato da nuove elezioni, evidentemente impossibili da tenersi in una situazione di guerra).
Arrivati a questo punto solo Donald Trump può far sì che i due sovracitati si incontrino, facendo leva – più facilmente – su Zelensky in virtù della spada di Damocle degli aiuti militari americani e, potenzialmente, su Putin minacciando sanzioni ancora più pesanti di quelle attualmente in vigore. Il Tycoon cercherà di sfruttare i buoni rapporti che intercorrono tra lui e lo “Zar”, dei quali non si è mai fatto mistero, dal vertice di Helsinki del 2018 sino a quello di Anchorage di metà agosto. Il contesto russo-ucraino è bene però inserirlo in un quadro geopolitico ben più ampio su scala globale, laddove gli Stati Uniti già da qualche anno – prima ancora di Trump “Atto II” – stanno giocando (come asserito da diversi analisti) una partita alquanto complicata: cercare di far riavvicinare a sé la Russia, staccandola dalla sua “amicizia senza limiti” con la Cina.
Pechino è il vero competitor di Washington.
Donald Trump si trova in una situazione molto complessa da sbrogliare: riabilitare in parte Vladimir Putin e riaprendo le relazioni russo-americane senza però svendere l’Ucraina e l’Occidente, facendo apparire quest’ultimo (e di conseguenza anche gli USA) troppo debole. Il Cremlino sa bene che i suoi NO non potranno essere infiniti e che il narcisismo e la concretezza del presidente USA in un modo o nell’altro dovranno essere soddisfatti da qualche rinuncia russa. Nel caso invece in cui Trump decidesse di farsi da parte, la guerra proseguirà. Da qualunque prospettiva la si voglia guardare, il percorso negoziale – per quanto riempito dalle visioni antagoniste dei contendenti – in qualche modo sta iniziando. Sarà lungo, accidentato, ma è stato intrapreso.
La posta in gioco è alta o forse è meglio dire…Yalta.
Enrico Andreoli
1 settembre 2025





